domenica 7 aprile 2013

Quaranta dì

La verità è che da quaranta giorni stiamo discutendo della stessa cosa, raccontandoci di quando in quando che sia cambiato qualcosa. La verità è che da quaranta giorni non è cambiato un bel niente. E noi stiamo qui a discutere sul nulla.
Il giorno dopo le elezioni, Bersani ha proposto a Grillo un Governo del cambiamento. Grillo ha risposto di no. Da quaranta giorni, ripete di no.
Il giorno dopo il giorno dopo le elezioni, Bersani avrebbe dovuto farsi una ragione del rifiuto grillino. E scegliere un'altra strada.
Dopo quaranta giorni, forse, stiamo discutendo di questo. Meglio tardi che mai? Forse. Di sicuro, è peggio tardi che prima...
Ora, le possibilità sono tre, come lo erano quaranta giorni fa. Ognuna con qualche variabile non insignificante. Ognuna segnata da un "non detto" che vi dirò alla fine.
La prima opzione è un accordo politico pieno e definito tra Pd e PdL, con Bersani premier e ministri di entrambi gli schieramenti. Una grande coalizione che in molti paesi europei sarebbe ovvia, ma che in Italia rischia di trasformarsi in una tragedia politica per il Pd. Il quale, in nome della scalata a Palazzo Chigi, rischia di investire tutta la propria immagine e la propria storia in un'avventura dagli esiti incerti e di breve durata.
La seconda possibilità è quella di un Governo Pd-PdL di breve durata, per fare alcune cose importanti e urgenti, evitando un eccessivo coinvolgimento dei vertici democratici. E preparando, nel frattempo, le condizioni per arrivare più forti alle prossime elezioni politiche. Vale a dire: cambio di leadership, di atteggiamento, di programmi. Perché questa leadership, questo atteggiamento e questo programma sono stati sconfitti.
Terza opzione: andare subito a nuove elezioni. Col rischio di passare dalla padella alla brace, in una situazione ancor meno chiara e con un Pd in minoranza anche alla Camera. Ma con l'opportunità di accelerare il cambio di leadership, atteggiamento e programmi di cui alla seconda opzione. E magari, di vincere.
Ma veniamo al "non detto". Quello che ha determinato questa inconcludente quaresima laica e complica un quadro che sarebbe invece tanto chiaro.
Quello che non si dice è che, in un modo o nell'altro, il nome di Pier Luigi Bersani deve restare in campo. Anche e forse soprattutto, per evitare l'ovvia alternativa strategica. Che si chiama Matteo Renzi.
Il Governo Bersani è finito il giorno delle elezioni. Poi è finito il giorno successivo, quando Grillo ha detto di no. Poi è finito quando Napolitano ha chiesto - giustamente - che ci fosse una maggioranza certa. Poi è finito quando l'incarico esplorativo è stato "congelato". Poi è finito quando l'incarico esplorativo è stato "assorbito". Poi è finito l'altro ieri, quando Grillo ha riunito i suoi e ha ripetuto che non darà la fiducia.
Eppure, contro ogni evidenza, il Governo del cambiamento è ancora in campo. E il problema sarebbe Renzi che non lo vuole... Si aspetta l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica e si prova - oggi - a tastare il polso della base in vista di una possibile "svolta": Governo Bersani insieme al PdL. Che poi era Renzi a volere l'inciucio...
La verità è che, per via di un Governo Bersani o di precipitose elezioni, si vorrebbe mantenere in piedi la leadership, l'atteggiamento e il programma che hanno perso le elezioni e che riperderanno le elezioni.
La verità è che davvero Matteo Renzi è il problema. Non certo perché sia "contrario al Governo Bersani", ma perché rappresenta l'alternativa, possibile e vincente. Alternativa alla linea da lemmings che vorrebbe imporci chi pensa vada bene perdere, riperdere e perdere ancora, purché non venga meno la loro presa sul partito.

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